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Questa ci mancava

In Afghanistan si continua a morire e l’impressione è sempre la stessa ovvero che le cose si raccontino in maniera quantomeno approssimativa, ma all’Italia (e ad una buona parte dei suoi media) sembra che la cosa interessi poco, c’è il bunga-bunga di cui parlare…roba seria, alto che un conflitto più lungo della seconda guerra mondiale.

La morte dell’alpino Luca Sanna 32 anni  e il ferimento del suo commilitone Luca Barisonzi, che rischia di portare per tutta la vita i segni dell’attacco, è avvenuta in una circostanza sin’ora mai toccata al contingente italiano, ovvero quello di un infiltrato tra le fila dell’esercito afghano che ha sparato ed è fuggito via, in uno dei “caposaldi” intorno alla base di Bala Morghab, florida terra di nessuno al confine con il Turkmenistan. Ormai è una piaga diffusa quella degli infiltrati all’interno di un esercito che sembra stare in piedi per fare “numeri”  (di ieri la notizia di un piano per portare quasi a 400mila unità le forze di sicurezza – vedi qui ) ovvero consentire agli occidentali di ritirare il grosso delle truppe.

Poco distante da Bala Morghab, a Qal-e-Now, capitale provinciale, pochi mesi fa, proprio un infiltrato del genere aveva ucciso due istruttori spagnoli. Solo una manciata di giorni addietro, più a sud, a Sangin, l’inferno in terra per gli inglesi prima e i Marines ora, un militare americano aveva ammazzato un soldato afghano prima di essere ucciso dal commilitone.
Dei 36 militari italiani uccisi in Afghanistan, pochissimi sono morti per colpi di arma da fuoco (se non ricordo male, il primo è stato il maresciallo Pezzulo, nel 2008 a Sorobi) quasi tutti invece per colpa di ordigni Ied, ma il loro numero negli ultimi mesi è drammaticamente aumentato (Romani, Miotto, ieri Sanna). Oggi possiamo contare la prima vittima della collaborazione con un esercito afghano non sempre affidabile, dove i confini tra indisciplina, stress da shock traumatico e infiltrazione vera e propria sono labili. Questa, purtroppo, ci mancava; ce la saremmo risparmiata molto volentieri: è la misura di una missione sempre più impegnativa e quindi più rischiosa; rischio (nonostante le affermazioni di La Russa che intende coinvolgere sul punto anche il generale Petraeus) sostanzialmente “incomprimibile” perchè più ti avvicini alla sponda del fiume, più ti bagni.

Anche questa volta, il racconto all’opinione pubblica è stato quantomeno approssimativo. Quando ieri ho letto il lancio d’agenzia, poche righe, sulla sparatoria nella base…beh gli scenari che mi sono venuti in mente sono stati appunto due, il primo quello di un attacco “complesso” alla fortificazione (ma si sarebbe dovuto trattare di un attacco su vasta scala, difficilmente condotto con armi leggere), il secondo – appunto – quello di un infiltrato. Del resto Bala Morghab è un’area da manuale per la collaborazione tra truppe di nazionalità diversa (americane, italiane, spagnole e appunto afghane). L’ho detto subito ad un collega con il quale stavo parlando al telefono e che mi ha riferito la notizia in tempo reale.

Il ministro alla Difesa (vedi qui) con la sua stoffa da comunicatore ha subito lanciato lo slogan-notizia del terrorista con la divisa dell’esercito afghano, insomma un attacco di qualcuno travisato da militare non di un militare vero e proprio (eventualità che però in Afghanistan è riferita soprattutto alle forze di polizia). Il ministro definiva “meno probabile” che fosse un infiltrato nell’esercito afgano, arruolatosi proprio per compiere azioni di questo tipo. Oggi ovviamente alla Camera è stata raccontata un’altra storia“era un infiltrato nell’esercito afgano, cioè uno dei militari” che prestavano servizio insieme ai soldati italiani nell’avamposto di Bala Murghab. L’uomo era nell’esercito afgano “da tre mesi”. Non mi riesco a spiegare questi “errori” di comunicazione se non come la fretta di dare le notizie o con la voglia di lanciare messaggi rassicuranti agli italiani, perchè è sempre meglio parlare di un terrorista in divisa piutosto che raccontare che combattiamo fianco a fianco con qualcuno, in certi casi, pronto ad ammazzarci da un momento all’altro.
Non mi sembra ci abbia fatto caso nessuno, del resto sono i giorni del bunga-bunga che vuoi che ce ne freghi di quello che fanno 4000 italiani nel Paese soprannominato la tomba degli imperi per quanti Paesi stranieri ha messo in ginocchio?

Ultima fermata, Gulistan

Mentre i vivi litigano, e se ne discute non senza ipocrisie, c’è voluta la sincerità delle parole lasciateci da un giovane caduto alpino per mostrare a chi si ostina a guardare il dito, tutto quello che c’è intorno. C’ho messo qualche giorno per scrivere questo post, perchè di solito evito di fare commenti “geopolitici” nei giorni destinati al lutto come purtroppo è stato l’ultimo del 2010. Nei giorni successivi poi, ho visto aprirsi una fisarmonica di eventi e dichiarazioni sulle quali mi sembrava il caso di riflettere.

Matteo Miotto ha scritto nel suo testamente di voler essere sepolto nella parte del cimitero di Thiene dedicata ai caduti di guerra. Sembra una decisione privata, per me sono parole di verità nella vicenda afghana. Al di là della facile retorica, dovrebbe spingere molti a spostare lo sguardo dal dito, a guardare a cosa quel dito stia puntando.
Matteo è morto in guerra, da professionista sapeva che c’era questa eventualità e l’ha scritto nel suo testamento. Non voglio riapre il discorso sulla natura della missione italiana, finiremmo con il parlare della Costituzione e perderci la sostanza ovvero che in Afghanistan si combatte una guerra e la politica (tutta) non si assume la responsabilità di dirlo al Paese. Di dire agli italiani che quella è una guerra, magari giusta (come ritiene il Premio Nobel per la Pace, il presidente Obama e – più implicitamente – tantissimi governi di mezzo mondo) ma null’altro che una guerra.

Quanto sia importante questa verità l’abbiamo capito nei giorni successivi alla morte di Matteo, in una vicenda dove quella decisione di un giovane alpino diventava sempre più altamente simbolica, proprio ora e mai come ora.
Il ministro La Russa arrivato ad Herat la sera del 5 gennaio, racconta che Miotto non è morto come inizialmente detto (colpito da un cecchino) ma colpito durante un attacco “multiplo” alla sua base. Due scenari ben diversi. La Russa polemizza con i militari che l’hanno informato tardi, parla del “riflesso di un vecchio metodo, di cercare di indorare la pillola della realtà dei fatti, di dire la verità ma nel modo più indolore possibile” – ovvero riapre la polemica con il metodo del governo Prodi (che poi proprio sull’Afghanistan scivolò la prima volta). Oggi sul Corriere della Sera, la smentita del Capo di Stato Maggiore, il generale Camporini apre uno scontro senza precedenti tra i vertici civili e quelli militari delle forze armate. Il ministro La Russa deve convocare in mattinata una conferenza stampa per ricucire lo strappo con le stellette.
Qualcuno mi sembra provi a leggere lo scontro secondo le categorie dell’italico “politichese”. Qualunque cosa sia successa l’ultimo giorno dell’anno nel Gulistan (e molti dubbi continuano ad esserci), queste onde “telluriche” altro non sono che frutto del peso dell’Afghanistan; qualunque entità metta le mani in quel Paese – lo dice la storia – si ritrova profondamente destabilizzata, solo negli ultimi tempi penso alle dimissioni del governo olandese o a quelle del presidente tedesco. Ora sbattono le porte di Palazzo Baracchini, la sede del Ministero alla Difesa, a Roma.

L’altra cosa a cui punta il dito, lo stesso dito dal quale gli occhi non riescono a staccarsi, è un distretto della provincia di Farah. Si chiama Gulistan, il posto dei fiori in lingua dharì, sempre più – drammaticamente – fiori di lutto per gli italiani. Dal primo settembre i nostri militari sono arrivati per estendere la presenza del governo di Kabul, tradotto per tagliare le retrovie dei talebani che nella confinante provincia di Helmand, la loro roccaforte, sono sempre più messi alle strette dalle massicce operazioni anglo-americane, ma hanno bisogno della strada della droga e della strada della ritirata verso il nord. Fino ad agosto l’op-box Tripoli ovvero una parte della provincia di Farah, Gulistan compreso, era in mano agli americani più del doppio dei 350 italiani che hanno preso il loro posto, asserragliati in tre fortini, chiaramente pochi per il compito loro assegnato e per dedicarsi ad un territorio così vasto.
Dal primo settembre i sei caduti riportati dagli italiani sono morti qui, cinque in Gulistan, uno nel confinante distretto di Bakwah. C’è bisogno di dire altro per capire che inferno sia quella zona in passato terreno solo delle forze speciali per brevi raid? Un terreno tutto da “riconquistare” dove solo poche settimane fa sono arrivati i primi militari afghani (anche per questo gli italiani finiscono con l’essere pochi). In confronto l’estensione della “bolla di sicurezza” di Bala Morghab corre il rischio di sembrare una passeggiata.
E siamo ancora in inverno, da marzo in poi la situazione – è facile prevederlo – si farà sempre più difficile, all’epoca in campo sarà schierata la prima aliquota di parà della Folgore che quest’anno copriranno il turno estivo (da aprile) della missione italiana.

Penso alla visita del generale Petraeus e del generale Camporini, il giorno di Natale, proprio a Bakwah. Rileggo i comunicati, quello in italiano dove spicca questa frase “Bakwah è una delle aree dove maggiormente si concentrano gli sforzi degli italiani nell’implementare la sicurezza, di concerto con i militari afghani. Sicurezza che i cittadini percepiscono di giorno in giorno e che va di pari passo con la fiducia nel lavoro delle forze di coalizione.” Quello destinato ai media internazionali (scritto in inglese), dove all’incirca nello stesso punto compare invece questa frase: “Bakwa is one of the more volatile areas in RC-West, and the Soldiers based there often engage insurgents in kinetic activities.” Ovvero “Bakwa è una delle aree più instabili dell’RC-West, i soldati di stanza qui spesso combattono con i ribelli”. Li rileggo e penso a quanto siano pesanti le parole di verità scritte da un giovane alpino morto a migliaia di chilometri da casa, scritte da chi pensa a dire le cose come stanno non all’effetto che le sue parole potranno produrre.

Purtroppo penso anche a cosa saranno i prossimi mesi nell’infero del Gulistan.

Duecento attacchi in sei mesi, almeno uno al giorno

 

 

Passaggio di consegne ad Herat (foto ufficio Pio Rc-West)

 

E’ stato un passaggio di consegne tra alpini, quello di Herat. Da oggi la regione ovest della missione Isaf, quella a comando italiana, è “affidata” alla Brigata Julia, che purtroppo ha già perso quattro uomini, pochi giorni fa in Gulistan, dispiegati per coprire la nuova task force south-east, in una sorta di “anticipo” dello schieramento odierno. La Taurinense lascia dopo sei mesi durissimi, impegnata nel semestre caldo meteorologicamente che è poi quello più “caldo” anche in termini di combattimenti, vecchia regola quasi mai smentita in Afghanistan. Gli alpini della Taurinense hanno subito duecento attacchi, più di uno al giorno, sessantuno gli ordini neutralizzati ma che altri cinque sono esplosi e hanno ucciso in due occasioni. “La minaccia è stata neutralizzata” in diverse occasioni, che tradotto dal glaciale gergo militare significa che sono stati uccisi un numero imprecisato (perchè non reso noto) di ribelli. Nei sei mesi peggiori di sempre per la missione italiana in Afghanistan, sono dieci i nostri soldati uccisi. Purtroppo una triste e matematica conferma dell’andamento di tutta la missione Isaf che nel 2010 ha perso più uomini che mai. Di seguito il comunicato finale sulla missione diffuso oggi dal Maggiore Mario Renna:

HERAT, Afghanistan (18 ottobre) – La brigata alpina Julia ha assunto oggi la guida per i prossimi sei mesi del Regional Command West, il comando NATO responsabile per la regione occidentale dell’Afghanistan forte di oltre 7000 militari di undici nazioni, tra cui 3.600 italiani, metà dei quali fanno parte del corpo degli Alpini. Il generale Marcello Bellacicco ha ricevuto oggi la bandiera della NATO dalle mani del generale Claudio Berto, comandante della Taurinense, alla presenza del Sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto e del comandante dell’ISAF Joint Command, il generale statunitense David Rodriguez. Nel periodo tra aprile e ottobre di quest’anno il contingente internazionale guidato dal generale Claudio Berto ha operato su un’area grande quanto l’Italia del nord, popolata da circa 3 milioni di persone, con molti risultati di rilevo all’attivo: zone un tempo terreno d’azione dagli insorti oggi pacificate e ripopolate, centinaia di progetti di sviluppo realizzati, migliaia di poliziotti e soldati afgani addestrati, centinaia di ordigni disinnescati dal genio.

Le operazioni sono state condotte in collaborazione con le forze di sicurezza locali secondo un approccio italiano che ha visto mettere la popolazione afgana  al centro degli sforzi, coinvolgere le comunità e i leader locali nell’affrontare i problemi legati alla sicurezza e allo sviluppo, realizzare i progetti di ricostruzione tramite risorse locali, usare flessibilità senza rinunciare ad essere determinati, adoperare le armi solo se attaccati e quando necessario. A nord, a Bala Murghab il 2° reggimento Alpini, insieme a forze statunitensi e afgane, è stato protagonista della costruzione di una ‘bolla di sicurezza’ di 20 km di estensione che ha difeso da attacchi esterni mediante un sistema di capisaldi e trincee, consentendo il ritorno alla normalità per 8000 persone fuggite a causa degli insorti. Parallelamente, all’interno della ‘bolla’ è stato lanciato un programma internazionale di aiuti a sostegno della popolazione, che ha risposto con favore al nuovo corso, facendo tra l’altro registrare alle elezioni politiche dello scorso 18 settembre uno dei tassi di affluenza più elevati della provincia. Al centro e a sud del’area di responsabilità, le unità del Regional Command West hanno operato a fianco delle forze di sicurezza afgane per estendere il raggio d’azione del governo, in particolare nei distretti remoti delle provincie di Herat e Farah. Il 3°, il 7° e il 9° reggimento Alpini hanno prodotto insieme alla polizia e all’esercito di Kabul uno sforzo puntuale e costante per contrastare la presenza degli insorti e proteggere la popolazione. Gli specialisti del genio hanno neutralizzato e distrutto centinaia di ordigni, spesso segnalati dalla popolazione afgana alle forze di polizia locali.

Nei sei mesi del mandato della Taurinense alla guida di RC-W, i quattro PRT presenti nelle province occidentali di Badghis, Farah, Ghowr ed Herat hanno condotto 384 progetti a breve e medio termine che sono stati integrati nei piani di sviluppo delle autorità governative locali. Di speciale importanza è stato l’impegno nel sostenere i programmi governativi di reintegrazione di ex-combattenti nelle comunità di provenienza, che stanno coinvolgendo decine di insorti orientati a deporre le armi. In particolare, il PRT Italiano di Herat ha condotto oltre 130 progetti per un totale di 18 milioni di Euro nei settori dell’istruzione, della sanità, delle comunicazioni e dello sviluppo socio-economico della provincia, triplicando il budget del Ministero della Difesa mediante l’accesso a fondi esteri.

Sul fronte dell’addestramento e della preparazione delle forze di sicurezza afgane, i Carabinieri hanno lavorato intensamente ed efficacemente brevettando oltre 4000 reclute dell’Afghan Civil Order Police, la polizia afgana con caratteristiche spiccatamente militari addestrata presso i centri di Adraskan ed Herat gestiti dai militari dell’Arma. In vista di una sempre maggiore autonomia nel training è stato inoltre lanciato un programma di formazione degli istruttori afgani. La Task Force Grifo della Guardia di Finanza ha contribuito alla formazione specifica dei quadri della polizia di frontiera e delle dogane, impegno di una certa importanza visto che la regione ovest presenta confini di migliaia di kilometri con l’Iran e il Turkmenistan.

L’ottima riuscita della partnership con il 207mo Corpo d’Armata dell’esercito afgano è stata facilitata dall’opera dell’Operational Mentoring and Liaison Team,  l’unità multinazionale a guida italiana che quotidianamente ha accompagnato in operazione e in addestramento tutti i battaglioni afgani schierati nell’ovest del Paese. Un’attività analoga è stata sistematicamente svolta dai Carabinieri del Police Mentoring and Liaison Team nei confronti del comando del 606mo Corpo della polizia di stanza a Herat Tutte le operazioni si sono avvalse dell’apporto di velivoli ad ala fissa e rotante inquadrati in task force statunitensi, spagnole e italiane.

Di notevole importanza è stato il contributo della Joint Air Task Force (JATF) dell’Aeronautica Militare e della Task Force Fenice dell’Aviazione dell’Esercito, che, mettendo in campo una grande gamma di capacità, hanno prodotto centinaia di missioni di ricognizione, scorta, trasporto, aviolancio e osservazione. Gli AMX e i Predator dell’Aeronautica hanno giocato un ruolo di peso nella protezione dei convogli e nel contrasto alla minaccia degli ordigni improvvisati, mentre i Mangusta dell’Esercito hanno svolto un compito essenziale nell’appoggio alle truppe a terra, che sono state rifornite con regolarità grazie ai C130J della JATF e ai CH47 di Fenice, che con gli AB205 e 412 ha inoltre assicurato missioni di collegamento e scorta. Il generale Claudio Berto ha ricordato il sacrificio dei dieci militari italiani caduti in Afghanistan negli scorsi sei mesi, rimarcando “l’intensità delle attività operative e il valore aggiunto dell’approccio italiano che coniuga con successo sicurezza e sviluppo, al servizio del popolo afgano nel processo di normalizzazione del Paese, senza trascurare le comunità e le aree meno avvantaggiate”.

Ma allora le bombe non servono?

Herat, Camp Arena, giornata di TOA ovvero di cambio di contingente per la missione italiana. Dopo sei mesi durissimi, lasciano gli alpini della Taurinense e arrivano, come da programma, quelli della Julia. Un collega fa una domanda al comandante (uscente) dell’RC-West, ovvero dell’area ovest della missione Isaf, ovvero quella a comando italiano. La domanda, rivolta al generale Claudio Berto, riguarda il dibattito (che tanto ha tenuto banco nei giorni destinati al lutto per la morte dei quattro alpini della Julia, uccisi in Gulistan) sull’armamento dei caccia italiani, jet utilizzati per ricognizione e non dotati di bombe; “dotazione” che invece il Ministro La Russa vorrebbe autorizzare non senza polemiche e scetticismi.

Ecco quanto riporta l’Ansa:

Con i caccia Amx armati di bombe ci sarebbe stata maggiore sicurezza per i militari italiani in Afghanistan? Si sarebbero evitate vittime? E’ una ”domanda difficile” alla quale il generale Berto, che per sei mesi ha comandato la regione ovest della missione Isaaf preferisce non rispondere. ”C’e’ pero’ da dire una cosa: che gli assetti aerei non sono mai mancati” a supporto del contingente nazionale. Questo perche’ ogni volta che sono stati chiesti, spiega il generale Berto, ”la Nato ha provveduto” a portare soccorso. ”Per quanto riguarda invece gli elicotteri – aggiunge il generale – il contingente nazionale ha tutti gli assetti necessari per operare autonomamente”

Mettiamo la Freccia

"Freccia" a Shindand
"Freccia" a Shindand

A lungo attesti, i Freccia sono arrivati in Afghanistan. Nella foto (scattata dall’ufficio Pio del comando italiano) se ne vede uno in azione a Shindand, dove opera la Task Force Center ovvero uno dei tre battle group italiani. Il Freccia è un mezzo “digitale” (per via della tecnologia di cui dispone) e può portare fino ad otto militari, più i tre membri dell’equipaggio. Pesa 28 tonnellate e conta su oltre 500 cavalli di potenza. “Una compagnia di Freccia dell’82° Reggimento fanteria “Torino” di stanza a Barletta è attualmente schierata a Shindand, a sud di Herat, in seno alla Task Force Centre, costituita dal 3° reggimento Alpini di Pinerolo – si legge nel comunicato ufficiale – La compagnia partecipa ad operazione di pattuglia e scorta insieme alle compagnie alpine dotate di blindati Lince”. Il Freccia è un mezzo molto sicuro, più del Lince, ma ovviamente ben più limitato – per via di peso e dimensioni – nel suo impiego che (proprio come con i carri Dardo) dovrebbe essere circoscritto al deserto pietroso tra Herat e Farah.

E’ sempre importante sapere che ci si preoccupi di dotare chi rischia la vita di equipaggiamenti all’avanguardia (dell’arrivo dei Freccia ha più volte parlato il Ministro La Russa, anche in coincidenza con fatti tragici come la morte di nostri soldati). E’ anche importante sottolineare (per evitare fraintendimenti nell’opinione pubblica) che nuovi mezzi, per quanto più sicuri, non possono azzerare i rischi della missione afghana, che sin’ora ha sempre confermato la regola che a blindatura maggiore corrisponde una maggiore carica di esplosivo, che a maggior protezione corrisponde un attacco più aggressivo. La logica a spirale della guerra che in Afghanistan pare ancora più amara che altrove.

Fare Scuola

Posa della prima pietra - Scuola "Ramadù - Pascazio"
Posa della prima pietra - Scuola "Ramadù - Pascazio"

Mentre, lunedì, a Bala Morghab il convoglio italiano finiva sotto attacco, più a sud nella provincia di Herat, quasi in contemporanea, il Prt italiano posava la prima pietra di una scuola. Verrà intitolata al sergente maggiore Massimiliano Ramadù e al caporal maggiore scelto Luigi Pascazio, i genieri della brigata alpina Taurinense uccisi proprio in quell’attacco. La notizia è arrivata dal comando italiano, poco dopo la fine dei funerali dei due caduti. Gli americani di solito intitolano ai caduti le loro basi (Fob Tillman, Camp Blessing…), gli italiani hanno scelto una scuola – mi sembra una differenza non da poco, al di là della retorica della missione di pace a cui ormai non crede più nessuno. Un gesto che, tra l’altro, forse contribuirà anche a dare un po’ di sollievo a famiglie dei due alpini, il cui dolore sarà comunque incancellabile.
Mi ha fatto piacere leggere quel comunicato – subito dopo, però, ho provato a guardare al 2020 o forse solo al 2015. Mi sono chiesto che cosa sarà di quella scuola tra dieci anni? Qualcuno in Afghanistan proverà a leggere quei due cognomi stranieri pensando a quello che hanno contribuito a fare per il loro paese o il tempo, la guerra, il caos avranno intanto cancellato tutto? Insomma mi chiedo quanto durerà la guerra e cosa resterà di quello che gli occidentali stanno facendo, nel bene e nel male, in Afghanistan. Sarà il dolore per queste due nuove vittime italiane, per gli altri occidentali che continuano a morire in giro per il paese, per le tante vittime afghane che “non fanno notizia” ma ogni giorno è sempre più difficile credere che il 2013 sia un obiettivo realistico per la fine della guerra.

Bala Morghab, la Korengal italiana

Fob Columbus Bala Morghab np©2008
Fob Columbus Bala Morghab np©2008

No attenzione, leggete bene il titolo…non sto paragonando Bala Morghab per intensità dei combattimenti o per numero di caduti alla valle di Korengal, la valle della morte (da poco abbandonata dagli americani nella provincia di Kunar ). Del resto il sergente Massimiliano Ramadù e il caporal maggiore Luigi Pascazio, uccisi oggi da un’IED mentre si avvicinavano in convoglio alla Fob Columbus, sono le prime vittime imputabili direttamente a quella valle. Sin’ora Bala Morghab aveva visto solo feriti e tanti militari italiani miracolati (salvati da una mano invisibile o da un paio di millimetri di kevlar dell’elmetto), purtroppo oggi non è andata così.

Sono altre le affinità tra Bala Morghab e Korengal, affinità logistiche potremmo forse chiamarle. Bala Morghab non è un’area densamente popolata, proprio come la “maledetta valle” e quindi poco ha a che fare con la nuova strategia McChrystal (più uomini per garantire sicurezza alla popolazione, non per controllare l’estensione del territorio); come Korengal ha una posizione remota dove persino portare una bottiglia d’acqua è un gran problema (l’estate scorsa la nostra aeronautica ha ricominciato gli aviolanci di materiali, sospesi dai tempi del Kurdistan). Un posto isolato dove fare arrivare una colonna di blindati per l’ordinario cambio di compagnia (alternanza inclusa tra spagnoli e italiani) o un convoglio di camion per ricostruire un ponte è un’operazione complessa che impegna centinaia di uomini, esponendoli al rischio di attacchi. Soprattutto Bala Morghab come Korengal è un posto dove bisogna in qualche modo volerci andare, non è tipo Delaram uno di quegli “incroci” dove non puoi fare a meno di passarci. E’ vero che sulle mappe c’è una striscia che arriva da Qal-e-Now (sede del Prt spagnolo, i cui uomini fanno fatica a muoversi al di là della periferia cittadina) fino a lassù, ma quella “striscia nera” nonostante abbia lo stesso nome (“ring road”) con l’autostrada numero uno ha poco a che fare visto che in realtà è poco più di un budello – attraversarla incolumi d’estate è un’impresa ma passarci con la pioggia o la neve è un record da raccontare ai nipoti.

Ma allora che ci stiamo a fare lassù? La risposta come al solito in Afghanistan non è semplice nè univoca, cercatela voi tra questa serie di fatti che provo ad elencare. Bala Morghab è un’enclave pasthun in territorio tagiko, negli anni ’90 – anche se in pochi lo ricordano o lo citano – è stata la base talebana per lanciare l’attacco su Mazar-i-Sharif, la più grande città del nord. Altrettanto pochi ricordano una scena svoltasi da queste parti, replicata oggi da stauette di gesso nel museo della jihad di Herat – era il 1979 e dopo la rivolta di Herat, Ismail Khan riunì lassù quelli che sarebbero stati i comandanti della jihad anti-sovietica nell’ovest del Paese.
In questa fertile piana di oppio non se ne produce tantissimo in valore assoluto ma buona parte dei cinquemila ettari della provincia coltivati a papavero sono concentrati nel distretto di Bala Morghab, produzione cresciuta dell’822% dal 2008 al 2009 (segno di quanto precari e controversi siano gli effetti della presenza occidentale sull’industria della droga). Del resto se voi foste un contadino con il confine a due passi, forse non ci pensereste due volte a buttarvi nel business…un business che aggiunge ai talebani la forza (e i soldi) dei trafficanti. Da Bala Morghab si arriva diritto diritto in Turkmenistan ma soprattutto a Gormach, passaggio chiave nella mobilità tra est ed ovest nell’Afghanistan del nord.

Bala Morghab np©2008
Bala Morghab np©2008

L’ex-cotonificio oggi trasformato nell’avamposto (Fob) Columbus è uno degli ultimi segni della presenza sovietica nell’area, ultimi militari stranieri insediatisi nella zona. Dopo il loro ritiro, vent’anni dopo, qui si sono visti (nel post-2001) a volte qualche pattuglia tedesca e pare anche dei norvegesi. Nell’agosto del 2008 arrivarono gli italiani, accolti con quattro giorni di battaglia, io ci sono arrivato ai primi di settembre e le condizioni di vita per i militari dell’Aeromobile mi sono sembrate poco diverse da Korengal, alberi secolari a parte ma le risaie sono perfette lo stesso per sparare nella base. Da allora in poi si è andati avanti tra operazioni per “aumentare” la bolla di sicurezza, civili in fuga, tregua con i ribelli (vedi elezioni presidenziali del 2009, la prima tregua elettorale ufficialmente siglata dal governo), capi talebani arrestati, liberati e poi uccisi dai predator senza pilota. Benvenuti a Bala Morghab, la Korengal italiana…se mi passate il paragone.

Macabra cabala

La notizia la conoscono tutti, l’abbiamo racconta oggi nei Tg, ha riempito il web e domani i quotidiani di carta. Altri due militari italiani sono morti in Afghanistan, due invece sono feriti seriamente ma vivi per miracolo; in primis il mitragliere del mezzo Lince sbalzato dall’esplosione di una IED, venticinque chilometri a sud di Bala Morghab. I numeri mi hanno sempre affascinato, forse perchè li guardi e ci puoi vedere di tutto, anche quelli che sembrano messaggi del destino. Oggi sono passati esattamente otto mesi dalla strage di Kabul, quella che ho vissuto in prima persona, con 6 parà uccisi e oltre dieci civili fatti a pezzi da un’autobomba. 17 settembre – 17 maggio e rieccoci a parlare di morti. I numeri martellano di nuovo la tragedia dei nostri alpini, 32esimo reggimento Genio, Brigata Alpini Taurinense. Massimiliano Ramadù di Velletri (Rm) e il caporalmaggiore Luigi Pascazio, di Bitetto (Bari) non lo sapranno mai ma la loro morte segna anche un traguardo simbolico che pesa come un macigno sulla missione Isaf, con il loro sacrificio sale a quota 200 il numero dei militari stranieri uccisi in Afghanistan dall’inizio dell’anno – mai così tanti nei primi cinque mesi dell’anno, un triste record all’insegna dell’assunzione algebrica: più soldati, più presenza sul territorio, più attacchi e quindi…più vittime. Bastano poche ore a fare di questa soglia simbolica nient’altro che acqua passata, mentre scrivo siamo già arrivati a 202. Cosa ci vorranno dire i numeri? Beh questa volta non ci vuole un Dan Brown di turno o un Pitagora moderno per capirlo.