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Attacco a Parigi. Modello Mumbay-Kabul

Gli attacchi a Parigi sono stati condotti con la tecnica dell’operazione coordinata: piccoli gruppi di fuoco, dotati di armi automatiche e di attentatori suicidi, diretti in (quasi) contemporanea contro i cosiddetti “soft target” ovvero obiettivi civili a basso – se non nullo – livello di sorveglianza.
In termini operativi è un salto di “qualità” (le virgolette sono d’obbligo) rispetto agli attacchi a cui l’occidente è stato soggetto negli ultimi anni, da quello al parlamento canadese fino alla stazione di Atocha condotti con la stessa matrice militare (pochi operativi se non persino uno solo) con l’obiettivo di avere un forte impatto mediatico e il più alto numero possibile di vittime civili. Gli operativi – i terroristi – sono solitamente, immigrati di seconda o terza generazione, con alle spalle viaggi nelle aree dei campi d’addestramento, cellule in sonno che si attivano  – di solito – attraverso messaggi “in codice” pubblicati su forum jiadisti e incomprensibili ai più.

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I talebani della porta accanto

Ieri hanno distrutto il monumento dei martiri, una stele dedicata alle vittime della rivoluzione contro il dittatore Moussa Traorè del 1991, nelle scorse settimane hanno distrutto monumenti ben più preziosi ed antichi come le statue di Alfarouk, il cavaliere bianco, l’angelo che protegge la città, la città dei 333 santi: Timbuctù, Timbuktu o se preferite Tombouctou. Stiamo parlando degli estremisti di Ansar Dine, i difensori dell’Islam, braccio di Al Qaida del Maghreb che della città carovaniera, un tempo snodo fondamentale per il transito del sale e dell’oro nonchè per lo studio dell’Islam, hanno fatto la capitale di uno stato che non c’è e che si estende nella parte settentrionale del Mali. Sono giorni buii per un luogo classificato dall’Unesco come patrimonio dell’umanità, una vicenda che non può non ricordare – pur nelle differenze del caso – la demolizione dei Budda di Bamyan.

Quella del Mali è una crisi totalmentedimenticata. Dopo il crollo del regime di Gheddafi, tra fine dei fondi libici destinati al governo di Bamako e ritorno dei tuareg impiegati da Gheddafi per la sicurezza nel deserto, un gruppo di giovani ufficiali golpisti ha preso il potere il 22 marzo. Un golpe debole che ha precipitato il Paese nel caos. A quel punto è intervenuta l’Ecowas (la comunità economica dell’Africa occidentale) per portare un po’ di ordine e ha ottenuto l’insediamento di un presidente “ad interim”. Ma nei giorni scorsi, con i militari che stavano a guardare, una folla di dimostranti ha invaso il palazzo presidenziale aggredendo il presidente Dincounda Traore, ieri volato in Francia per controlli “già previsti”, in realtà per curarsi dalle ferite subite e forse per non tornare più. 
L’ “incidente” è stata l’occasione per i golpisti di rimangiarsi l’accordo con l’Ecowas e  nominare un secondo presidente: il loro capo, il capitano Amadou Haya Sanogo.
“Soliti casini africani” verrebbe da dire ad un osservatore poco attento e molto cinico (in occidente è purtroppo la categoria prevalente quando si parla d’Africa), sarà anche così ma questa volta il “solito casino africano” non riguarda solo l’Africa e il suo dimenticatoio.

Complice l’instabilità a Bamako, il nord del Paese è finito nelle mani dei tuareg e degli islamisti di Ansar Dine che stanno provando a trasformarlo in uno stato indipendente e retto dalla sharia. In un videomessaggio scovato oggi dall’AFP, il capo di Al Qaeda nel Maghreb (Aqmi) l’algerino Droukdel invita  i combattenti ad un’imposizione della sharia che sia più graduale di quanto dovrebbe ma comunque di chiudere subito i luoghi di perdizione, droga e alcool.

La crisi del Mali sta trasformando un parte d’Africa, poco distante dalle coste europee, in uno stato di stile talebano, con l’aggravante che si ritroverebbe al centro dei traffici desertici di armi e droga. Lo spettro (anzi il miraggio) proiettato dal calore che arroventa le dune è quello di una portaerei per criminali e terroristi, arenata in mezzo alle sabbie sahariane. “Soliti casini africani”…sarà, ma è molto probabile che prima o poi qualcuno sarà costretto ad occuparse al contrari degli altri “soliti casini africani” precipitati nell’archivio dei pensieri perduti.

Geronimo goes to Hollywood

Finì ad esibirsi alle fiere di paese Geronimo, il capo indiano, il cui nome è stato utilizzato per definire il bersaglio Bin Laden durante l’operazione in cui è stato ucciso meno di tre mesi fa. Bin Laden (da morto) finirà ad Hollywood e questo era già chiaro a tutti, ma la trasposizione cinematografica del raid più famoso della storia delle forze speciali sta già causando un gran dibattito nell’America travolta dalla recessione dove questo successo di Obama sembra già dimenticato di fronte agli indici di borsa in picchiata.
Pochi giorni fa Maureen Dowd, opinionista del Ny Times, ha svelato che la Casa Bianca (che ha poi smentito) sta passando informazioni riservate ad un produzione della Sony sull’uccisione di Bin Laden, un’iniziativa che non ha fatto piacere ai Repubblicani i quali hanno già chiesto un indagine al riguardo (ricordiamo che sulla diffusione anche di un dettaglio cruciale per convinvere gli scettici, ovvero le foto del corpo di Bin Laden, si sollevo’ un dibattito di alto livello negli Stati Uniti).
Intorno alla storia del capo di Al Qaeda sono giorni caldi, il New Yorker nel numero dell’8 agosto ha pubblicato uno straordinario racconto “play-by-play” come si dice nel football americano, diciamo passo dopo passo, di quanto accaduto la notte di Abbottabad. E’ il primo resoconto del genere mai pubblicato e merita di essere letto, qualcuno pero’ nella stampa americana se l’è presa sottolineando come l’autore in realtà non ha precisato di aver mai parlato con i Seal protagonisti dell’operazione.
I nemici, a volte, sanno essere un problema anche da morti.

Al Qaeda, dopo Bin Laden

Chi guiderà Al Qaeda? Cosa succederà all’organizzazione fondata da Bin Laden? Braccato, isolato, lo sceicco era ormai diventato un simbolo più che un capo operativo. Al suo posto arriverà il medico egiziano Al Zawahiri, se l’organizzazione vorrà un’altra icona, un altro veterano del terrore. Se invece si opterà per una figura con più fascino militare, potrebbe essere l’ora del libico Abu Yahya al-Libi, riuscito a fuggire dal carcere di Bagram e sopravvissuto ai bombardamenti in Pakistan. Dalla doppia cittadinanza yemenita ed americana, Anwar al-Awlaki è invece un predicatore capace di farsi ascoltare da vaste platee attraverso la Rete.

Ma Bin Laden sembra aver risolto a priori il problema del suo successore. Ha profondamente cambiato Al Qaeda in questo decennio. Non più l’organizzione monolitica strettamente dipendente dal suo capo com’è stato sino all’11 settembre. L’ha trasformata in un’organizzazione decentrata, un franchising del terrore – come la definiscono alcuni –  che unisce piccole cellule in sonno (come quelle che sarebbero in Europa), ma anche organizzazioni bene articolate.  Al Shabab, che controlla e amministra una vasta parte della Somalia oppure Al Qaeda nella Penisola Arabica. Dai suoi campi nel deserto dello Yemen, è partito l’attentatore più pericoloso degli ultimi anni, Abdullah Mutallah, che stava facendo esplodere un volo per Detroit. Insomma, ucciso Bin Laden è caduto un simbolo ma la sua organizzazione potrebbe non esser stata decapitata.

La Caccia

Gli americani lo cercavano dagli anni ’90, quando lo mancarono almeno in tre occasioni; un ipoteca che ancora grava sulla presidenza Clinton. All’epoca Bin Laden guidava la sua milizia privata in Afghanstan, viveva in una cittadella fortificata alle porte di Kandahar e viaggiava sulle strade al confine col Pakistan che aveva fatto costruire durante la guerra anti-sovietica con i mezzi dell’azienda edile di famiglia. Ma il grande fallimento americano risale alla fine del 2001, ad Afghanistan ormai invaso, le radiotrasmittenti gracchiavano gli ultimi ordini dello sceicco del terrore ai suoi uomini, rintanato nelle grotte di Tora Bora.

L’assedio venne condotto da soli 70 militari americani. A seguire l’operazione c’erano 100 giornalisti. Ormai spacciato Bin Laden fuggi’ comprandosi i mercenari afghani che aiutavano gli americani. Da allora si è favoleggiato sul suo nascondiglio, ma era ormai chiaro che non fosse in uno dei remoti scenari montani dove amava farsi riprendere.

E così l’hanno preso dove la resistenza afghana anti-sovietica ha fatto base per anni, tra Peshawar e Islamabad in Pakistan, a cento metri da una base militare pakistana. La vera novità che racconta la morte di Bin Laden è proprio l’atteggiamento dei servizi pakistani. L’Isi che negli anni hanno organizzato i mujaheddin, poi creato i talebani e che ora sostengono la guerriglia anti-occidentale in Afghanistan.

Sin’ora avevano bloccato ogni operazione americana sul loro territorio, tra sabotaggi e soffiate, come quando avevano arrestato a Karachi il capo militare dei talebani afghani per far fallire le trattative di pace sul governo Karzai. Se davvero l’Isi ha cambiato rotta, le prossime fermate per le forze speciali americane potrebbero essere il rifugio di Al Zawahiri, braccio destro di Bin Laden, e quello del Mullah Omar, leader indisscusso dei talebani. Entrambi rifuggiati in Pakistan, secondo più fonti.

A proposito di fonti, a chi sarà andata la taglia di 25 milioni di dollari che pesava sulla testa di Osama?

La lezione di Tora Bora – “Rewind”

All’epoca – erano l’autunno del 2001 – i bombardieri americani falciavano i talebani a centinaia e di lì a poco sarebbero finiti (ricamati con la loro scia di bombe) sui tappeti made-in-china venduti in molti negozi afghani: icona di un trionfo.
Con un pugno di uomini delle forze speciali sul terreno per fare “laser painting” degli obiettivi e tanta forza aerea a bombardare seguendo quelle tracce laser, la dottrina Rumsfeld di “economy of force” si stava dimostrando un successo totale – uno “stato canaglia” (anche se forse all’epoca questa definizione non era stata ancora coniata) veniva sconfitto a costi ridotti e in meno di un mese. Insomma guerra da discount, con la qualità di un negozio di grandi marche…

In questo quadro da riscossa post-11 settembre (o almeno così era stata venduta al mondo, oscurando i dubbi di molti sui pericoli di ogni campagna afghana) era sembrata poca roba il fallimento di Tora Bora. Un nome che molti ricordano per la sua musicalità (sembrava quasi scelto apposta dagli uomini del marketing della Casa Bianca per fare da palcoscenico al trionfo finale) e per l’assedio all’estremo rifugio di Bin Laden, conclusosi con (quasi sicuramente) la fuga di Bin Laden al termine di un assedio con più giornalisti sul campo (un centinaio) che militari americani (una settantina).
Di Tora Bora di recente si è tornare a parlare perchè quella sconfitta, all’epoca liquidata come un dettaglio (“…e poi mica era certo che lì ci fosse Bin Laden” – la scrollatina di spalle di fonti dell’amministrazione Usa) è diventata un modello da analizzare per capire il fallimento militare statunitense nel paese. Il senatore (democratico ex-candidato anti-Bush) John Kerry di recente ha denunciato la “sconfitta” di Tora Bora, attraverso il rapporto della commissione parlamentare affari esteri; definita come un fallimento della strategia di “economy of force”. Un assist al presidente Obama che di lì a pochi giorni avrebbe presentato la sua escalation militare e l’aumento di truppe nel paese (qui, l’intervento di Kerry sull’LA Times). In realtà si è parlato molto di questo rapporto perchè per la prima volta c’è un’ammissione ufficiale del fatto che Bin Laden sia scappato all’epoca e non morto in qualche oscuro recesso della montagna. A me, però, la storia sembra interessante per motivi più vasti.

Ma al di là della politica
, per rileggere Tora Bora oggi c’è una grande occasione, il saggio scritto da Peter Berger per The New Repubblic, Bergen è l’analista sul terrorismo della Cnn, autore anche di alcuni libri (uno di questi disponibile anche in italiano).  Chi non conosce le difficoltà del terreno dell’Afghanistan orientale (il complesso di grotte si trova nella provincia di Nangharar) e a maggior ragione chi lo conosce dovrebbe leggere questo saggio. Quella di Tora Bora è una storia esemplare delle difficoltà afghane (in generale, compresa la corruttibilità delle truppe locali e l’odio inter-etnico e tra fazioni) e di come l’atteggiamento americano (mi riferisco alle scelte strategiche della Casa Bianca) abbiano trasformato una guerra vinta facilmente nell’incubo di oggi.
E per chi volesse saperne di più, c’è “Kill Bill Laden” scritto da Dalton Fury, pseudonimo di un commando della delta force che a Tora Bora ha combattuto. Il libro è uscito alla fine del 2008 ben prima di Bergen e Kerry, ma forse all’epoca l’Afghanistan interessava ancora a pochi. Purtroppo…