Chi fugge da un luogo pericoloso, dalla guerra, dalla pulizia etnica, da una faida tribale, dalla persecuzione etnico-religiosa, crea una distanza fisica dal suo passato ma è destinato a portasi dietro la propria storia, per sempre, anche se riuscirà “altrove” a ricostruire per sé un’apparente dimensione di vita.
La diffidenza, l’ignoranza e le generalizzazioni (di ogni segno, comprese quelle sull’accoglienza “esibita”) ci impediscono di capire le storie di chi fugge e di comprendere come il suo passato, troppo spesso, sia destinato a tornare nel presente perchè chi se ne è allontanato, l’ha potuto fare solo in termini di coordinate geografiche.
Si tratti di un parente ammalato, di un amico in pericolo, di un’estorsione, di un ricatto o della richiesta di un favore a cui non puoi opporti, il passato ritorna sempre o quasi, è statistico ; sempre o quasi attraverso quei cari che ti sei lasciato alle spalle e che ti hanno aiutato a fuggire.
Presentato oggi alla stampa alla Casa del Cinema (dal 20/9 nelle sale), il film di Costanza Quatriglio “Sembra mio figlio” ha il merito di aprire un varco nella barriera “invisibile” che separa noi dalle storie di rifugiati e migranti. Ha il merito di mostrarci uno spaccato che è specifico, dettagliato, individuale: una storia vera, di certo verosimile ma non per questo “universalizzabile”, categoria che , in un modo o nell’altro, finisce sempre per sminuire il dramma del singolo.
Continua a leggere “Le storie degli altri”
Tag: afghani
Kabul, Patrasso, Europa
L’Algeria ha comunicato di aver completato in questi giorni una delle più grandi campagne di sminamento dell’era recente, ripulendo i confini dagli ordini piazzati dall’esercito coloniale francese per fermare i movimenti dei ribelli indipendentisti negli anni ’50 e ’60. Intanto in Grecia c’è chi le mine anti-uomo vorrebbe metterle lungo i confini ma non per fermare gli evasori fiscali che stanno illegalmente portando capitali all’estero contribuendo al tracollo ellenico, bensì per bloccare gli immigrati clandestini. I “mazzieri” del partito neo-nazista “Alba Dorata” (premiato alle ultime elezioni politiche ma che potrebbe scomparire dal parlamento,di nuovo, al prossimo voto di giugno) ieri notte hanno guidato un assalto contro i profughi (quasi tutti afghani) che arrivano a Patrasso per cercare un passaggio verso l’Europa; spesso restandoci per anni. Il raid è stato scatenato dall’uccisione da parte di uno o più immigrati (forse afghani) di un ragazzo greco, accoltellato in circostanze ancora poco chiare. Gli scontri sono andati avanti tutta la notte.
Il film è sempre lo stesso: si lasciano gli immigrati in condizioni di vita da bestie (il campo di Patrasso, prima di essere bruciato un paio d’anni fa, era molto peggio di tanti villaggi di fango che avevo visto in Afghanistan), poi si nega loro qualsiasi diritto (la Grecia è il Paese europeo col più basso tasso di riconoscimenti dello status di rifugiato), in questo brodo di coltura si nutre qualche straniero furbo e violento che finisce tra le fila della microcriminalità, di qui l’incidente che è la scintilla per dare corpo a tutte le paure e i rancori della comunità locale. Il caso greco aggiunge una variante a questo dejavù, il fatto che c’è un quasi-otto per cento dei cittadini ellenici che ritiene che, non solo la microcriminalità, il disordine e la sporcizia nelle strade siano colpa degli immigrati, ma anche la crisi economica sia da imputare a loro. In tanti – quasi l’8% – hanno infatti votato Alba Dorata.
Parlo di questa vicenda di Patrasso, non solo per il mio legame verso quei luoghi e le vicende di quei rifugiati, ma perchè si tratta di un luogo simbolico di scelte errate e contraddizioni che non riusciamo a sciogliere. A Patrasso si incontrano i giovanissimi profughi che fuggono dalla guerra tra l’Isaf e i talebani in Afghanistan. A quegli stessi profughi l’occidente (in particolare Atene) nega lo status di rifugiati, eppure basterebbe la testimonianza di uno solo dei soldati greci – di stanza nella comoda base di Kabul est – per dimostrare alla commissione visti quanto grave sia la situazione afghana. Infine i costi di quella stessa guerra (che aggravano i bilanci dello stato in tutto l’occidente, terremotato dalla crisi) vengono da un gruppo di oltranzisti (e molti che credono alle loro parole) imputati in qualche modo a quei profughi che dalla guerra fuggono invece di trarne beneficio. Non c’è che dire…un capolavoro.
La banda del buco
Affittate una casa a trecento metri di distanza dal carcere di Kandahar. Metteci dentro un nutrito gruppo di fiancheggiatori talebani che per mesi scavino un tunnel, così profondo da passare sotto la trafficata “ring road” e sotto un paio di posti di blocco. Un tunnel che passi sotto il muro altissimo del penitenziario, un muro rinforzato come il resto della struttura dopo l’attacco del 2008 con un autobomba che portò all’evasione di mille talebani ed a giorni di dolorosi attacci contro la città.
Beh! prendete tutto questo e alla fine non avrete un film ma una storia vera: questa. Perchè tutta questa storia è accaduta per davvero. Nella notte tra Pasqua e l’italica pasquetta, il tunnel è arrivato sotto una cella del braccio politico della prigione, è stato sfondato il pavimento di cemento, spostato il tappetto che lo copriva e nel buco si sono calati quasi 500 detenuti, quasi tutti talebani, compresi numerosi capi. Dall’altra parte ad aspettarli c’erano macchine col motore accesso. Solo 26 fuggiaschi sono stati ripresi, altri 2 uccisi in un conflitto a fuoco.
Un fatto gravissimo l’ha definito il presidente Karzai, del resto se in quel buco sono entrate 100 persone all’ora, ci sono volute quasi cinque ore per farli fuggire tutti. Un po’ troppo per non sospettare che abilità o meno dei talib, dentro la prigione ci fossero degli appoggi consistenti alias basisti tra i secondini. O meglio qualcuno più importante dei secondi visto che nei giorni scorsi è stato arrestato il capo della prigione e si è scoperto che i servizi di intelligence sapevano del possibile attacco, che i detenuti talebani avevano il diritto a visite dall’esterno, copie delle chiavi delle celle e telefonini…
Ma il vero problema, oltre all’inaffidabilità delle forze di sicurezza afghane alle quali gli occidentali cominceranno a breve a passare le consegne, è la fuga in sè. La stagione dei combattimenti è cominciata, i ranghi dei talebani erano stati fortemente indeboliti dai raid delle forze speciali, vanificati in una notte. Quei capi e quei soldati talebani sono di nuovo in giro, militari afghani e stranieri se li troveranno presto di fronte sul campo di battaglia nella ostica provincia di Kandahar che tante vite è costato sin’ora provare a riportare ad un minimo di controllo. E’ questo il buco più profonde di tutta questa storia di scavi e di tunnel…