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Raccontare la crisi a “casa nostra”

Gli amici di OverPress Media (parte del gruppo organizzatore di Mojo italia) stanno offrendo gratuitamente una serie di seminari live, con la possibilità di interagire con i relatori. Sono stato invitato a tenerne uno per condividere da vari punti di vista (social, tv e progetti vari) l’esperienza che sto accumulando sul campo in questi giorni nel racconto della crisi coronavirus.
Ecco il video se volete rivedere la nostra chiacchierata (purtroppo la chat con le domande – che spesso cito durante il video – non è visibile sullo schermo). Per vostra conoscenza, la piattaforma utilizzata è Demio.

https://vimeo.com/399491281

Per vedere tutti gli altri video, visitate il canale YouTube di OverPress Media

Lessons from Italy

L’onda del coronavirus si sposta nel mondo, la (triste) evenienza per cui siamo stati i primi dopo la Cina a subire l’urto dell’epidemia ha reso l’Italia un modello da seguire o comunque una sorgente di esperienza anche per i giornalisti.
Per questo motivo i colleghi della rivista Journalism.co.uk mi hanno intervistato affinché mettessi a disposizione degli altri la mia esperienza sul campo in questi giorni di “coprifuoco” italiano.

CLICCA QUI PER LEGGERE IL PEZZO Lessons from Italy: best practices for field reporting during the coronavirus lockdown

I posti di blocco che mancano

Nei giorni scorsi a Salerno, una farmacista ha denunciato di essere stata aggredita con secchiate d’acqua scagliate dai balconi e verbalmente – in un episodio distinto – mentre tornava a casa. Sui social leggo denunce di madri, messe alla gogna perchè portavano per mano in strada figli disabili che altrimenti non potrebbero orientarsi nel mondo.
Si tratta, inequivocabilmente, di atti di bullismo frutto di una malintesa interpretazione dello slogan “io resto a casa”.
Sono atti che nascono dalla paura delle persone che si trasforma in caccia all’untore (che poi in un’epidemia di portatori sani potrebbero persino essere inconsapevoli), ma anche dall’ossessione di certi “governatori” che di fronte ad una situazione nuova e spaventosa applicano le vecchie tattiche della caccia al nemico (fino a poco tempo fa erano gli immigrati oggi i runner o chi torna a casa la sera dal lavoro).
E’ un buon modo, evidentemente, per far vedere che sono in controllo della situazione quando dovrebbero in primo luogo fare ammenda (e correre ai ripari) per i tagli alla sanità pubblica degli ultimi anni.

In questo clima, da qualche giorno, vedo aumentata l’attività degli spacciatori di odio, bugie, calunnie, veleno, rancore (se volete essere alla moda chiamatele fakenews).
Su whatsapp gira l’impossibile: da finte istruzioni sulle mascherine con tanto di carta intestata del Ministero degli Interni a imbecilli in cerca di popolarità che illustrano teorie del complotto (il virus, l’esercitazione militare, l’ingegneria genetica…gli stessi che fino a pochi giorni fa vi parlavano dell’invasione americana dell’Europa).
Senza dimenticare gli anonimi “dottore” e “dottoressa” che raccontano falsi retroscena dalle corsie di chissà quale ospedale.
Le calunnie sulle ONG continuano in una versione nuova (“salite a bordo!”, “dove siete?”, “solo gli stranieri aiutate”) ma se quelle contro Emergency le firma un anonimo “medico” (che pure a me la daranno la laurea in medicina con altri due post su Facebook e ulteriori tre tweet), le assurdità contro Medici Senza Frontiere sono da attribuire ad un Bruno Vespa in evidente astinenza da video.

Ci raccontano di cittadini fermati perchè facevano un falò in spiaggia, del tipo che portava la birra alla fidanzata, del gruppo di amici beccati durante un picnic, insomma di beceri incivili tutto sommato rientranti nella fisiologica quota dell’idiozia italica. Abbiamo “massacrato” i fuggitivi dell’intercity notte, da Milano verso il sud, senza pensare che magari fossero precari che semplicemente al nord non potevano più restare senza salario, senza pensare che quella fuga era già cominciata giorni prima al momento della chiusura delle università, senza interrogarci sulle responsabilità della stampa per frettolose rivelazioni di bozze di decreto, senza ricordarci dei governatori del nord oscillati tra “chiudiamo niente” e “chiudiamo tutto”.
Queste storie degli “incivili” e degli “untori” – spesso dai politici – vengono scagliate nel fuoco della rabbia e delle frustrazioni (comprensibilmente montanti per via della “quarantena” sociale e della paura), così alimentando il “vigilantismo” (per fortuna, per ora, per lo più solo da tastiera o da smartphone) ed allontanando le critiche dell’opinione pubblica verso le loro poltrone.

Intanto però non c’è nessun posto di blocco per bloccare on line chi alimenta l’odio, diffondendo velenose fake news. Non è nemmeno dato sapere se qualcuno stia indagando su queste attività per capire se si tratti di iniziative di singoli idioti in cerca di popolarità oppure coordinate campagne di sorgente straniera con sponde italiche, un modello che il caso delle presidenziali americane come quello del voto sulla brexit ci ha mostrato essere ben funzionante.
Credo che, in questo momento in cui la strategia di risposta al virus viene adeguata ogni giorno e mancano persino dati generali sull’epidemia, la messa in circolo di paura, odio, divisioni e rancori sia quanto di peggio possa accaderci. Lo dico a quelli con il tricolore alle finestre che magari sono i primi a premere “inoltra” su whatsapp senza nemmeno pensarci un minuto, senza astenersi perchè non sanno se sarà mai una cosa vera o una sonora cazzata.
La diffusione di odio è bugie è il pericolo con la maiuscola in questo momento, ben più grave del virus in sé stesso (lo dico con il dovuto rispetto per chi ha perso un caro). E’ il pericolo che può spingere verso la definitiva frantumazione una società “anagraficamente” troppo lontana dagli ultimi veri sacrifici compiuti (Seconda guerra mondiale e il dopo-guerra) quindi incapace di mettere le cose in prospettiva.

E’ un pericolo contro il quale agire in maniera immediata e massiva. Altrimenti si moltiplicheranno: la caccia all’untore, il rifiuto delle indicazioni delle autorità (anche mediche), la negazione dell’evidenza e di ogni verità condivisa. Tutto ciò ci spingerà definitivamente in quel baratro dove le istituzioni (anche la sanità pubblica è un’istituzione) si disintegreranno e dove più facilmente potremmo diventare gli scendi-letto di questo o quello, il mattone da scalzare per far crollare l’Europa e traformala in terreno di caccia per potenze straniere, in cerca di vassalli.

Per favore, non chiamatela guerra

Di mestiere mi occupo per lo più di guerre, alcune ho avuto il privilegio di seguirle da vicino molte altre a distanza, ma con una certa assiduità, spesso le ho ricostruite grazie al racconto di profughi assiepati lungo qualche confine oppure rintanati in campi di fortuna. Se non vi fidate di quello che scrivo, dei miei reportage, dei miei libri (può essere), chiedete ai soldati italiani che hanno combattuto la “guerra di pace” in Afghanistan oppure agli anziani che hanno vissuto la Seconda Guerra Mondiale. E’ difficile che vi rispondano ma provateci. E’ difficile che vi rispondano perchè – da qualunque parte tu sia, soldato o civile – la guerra si porta dietro traumi, dolori e orrori che ti spingono a tenerti tutto dentro. O almeno questo è quello che ho constatato in anni di chiacchierate sia con reduci che con sopravvissuti.

Chiedere cosa? Beh chiedetegli cosa significa davvero essere in guerra, trovarsi in una città alle cui porte si combatte o sotto assedio. Nell’attesa che poniate questa e altre domande simili, provo a descrivervelo io partendo da una frase che sento e leggo in giro: “E’ come in guerra”.
Lo ripetono le persone in fila al supermercato, ad un metro di distanza, in strade che fino a ieri straboccavano di auto e oggi sono deserte.
Lo leggo sui social o nei messaggi personali che ricevo, commentando l’attuale situazione italiana (che poi sta diventando mondiale).
Bene vorrei pregarvi di non usare questo parallelismo. In sintesi: no, non è come in guerra. Ecco perchè.

E’ vero: in guerra te ne stai rintanato in casa (se non puoi fuggire via) come sta succedendo ora in Italia MA qualcuno (governativi, milizie, bande di criminali) potrebbe bussare alla tua porta in ogni minuto per stuprare le donne della famiglia; portare via gli uomini e i bambini per l’arruolamento forzato; razziare quello che avete in dispensa; regolare conti di cui magari non sapete nulla; arrestarvi senza motivo preciso perché non ci sono più tribunali e quindi la giustizia va per le vie brevi; ammazzarvi perchè credete nel Dio “sbagliato” oppure per i vostri tratti somatici che, alla nascita, vi hanno dato in automatico e non vi siete potuti scegliere.

E’ vero: in guerra te ne stai rintanato in casa (se non puoi fuggire via) come sta succedendo ora in Italia MA non hai Deliveroo, Glovo o l’e-Coop; non ti portano la pizza o le patatine fritte alla porta; non c’è RaiPlay; non hai Netflix e internet; Amazon è solo il nome di una enorme foresta pluviale. Quasi sempre la corrente elettrica arriva solo per poche ore al giorno e solo se hai abbastanza soldi da procurarti una tanica di carburante per il generatore, quello il cui rumore ti spacca le orecchie mentre tiene in vita una lampadina la cui luce sfarfalla ammazzandoti gli occhi.
Sull’acqua potabile è da vedere, magari arriva ancora (sempre che ci fosse prima del conflitto) ma non puoi esser sicuro che non sia stata contaminata.

E’ vero: in guerra non puoi portare i figli a scuola, tantomeno al parco giochi come sta succedendo ora in Italia MA tutto ciò accade perché è troppo pericoloso uscire per strada, soprattutto se il viale su cui devi passare per forza è diventato la linea del fronte tra due fazioni rivali; perché la scuola è stata bombardata (probabilmente un’ex elettricista oggi artigliere improvvisato ha sbagliato mira, ma la giustificazione ufficiale sarà che “l’edificio era usato dai nemici come covo per attaccare le nostre truppe”).

E’ vero: in guerra non sempre riesci ad andare al lavoro come sta succedendo ora in Italia MA quasi sempre perchè la fabbrica dove lavoravi è stata bombardata o requisita perchè ha una fantastica posizione sulla linea del fronte; perchè le cose che vendevi fino a ieri, oggi non le può comprare più nessuno; perchè gli esportatori non si fidano più di te e non ti spediscono più la merce oppure non c’è un vettore capace di portartela; perchè non ci sono materie prime da lavorare; nessuno fa il raccolto nei campi (intanto diventati minati) oppure può portare il latte fuori dalla stalle (se intanto il bestiame non è stato venduto come preziosa carne).

E’ vero: in guerra scarseggia il sangue come sta quasi succedendo ora in Italia (calano le donazioni e la carenza è in prospettiva) MA non puoi uscire di casa per andare a donare perchè ormai la “vecchia” regola “ospedali e ambulanze non si toccano nemmeno in guerra” è andata, da qualche anno, fuori moda.
Inoltre di solito non doni il sangue all’autoemoteca dove dopo ti danno caffè e biscottino. Invece lo fai come quando passi la benzina dal serbatoio di un auto a quello di un’altra, attaccato al lettino della persona che ne ha bisogno anche perché non sempre c’è energia elettrica per tenere le sacche refrigerate.

E’ vero: in guerra per comprare il cibo fai la fila, come sta succedendo ora in Italia MA non è detto che alla fine della fila troverai qualcosa da prendere, non è nemmeno detto che quel giorno il negozio sia rifornito e quindi aperto, non è nemmeno certo che stare in coda sia possibile per via delle esplosioni e dei cecchini.

E’ vero: in guerra ti può fermare la polizia per chiederti cosa ci fai fuori casa e sanzionarti solo perchè non hai un vero motivo per stare in strada, come sta succedendo ora in Italia, MA di solito la procedura è un po’ più sbrigativa, se sei nel posto sbagliato al momento sbagliato e ti prende una milizia o una banda armata, beh una multa da duecento euro non ti salva: ti sparano in testa sul posto o scompari in una prigione senza che nessuno si prenda la briga di dire ai tuoi familiari in quale fossa comune sia stato scaricato il tuo corpo (a Kabul ho incontrato un uomo che aveva avuto certezza dell’uccisione del padre, durante una purga comunista, più di trent’anni dopo, tre decenni trascorsi a sperare di vederlo ritornare a casa).

E’ vero: in guerra è difficile pure portare il cane a fare la pipì come sta succedendo ora in alcune aree d’Italia, MA di solito perchè ti sparano o perchè il cane sei stato costretto a mangiartelo, magari assieme ai topi o a qualsiasi altra fonte di proteine.

E’ vero: in guerra le terapie intensive sono al collasso come, purtroppo, sta succedendo ora in alcune aree d’Italia, MA di solito la situazione è un po’ più complessa: non tutti gli ospedali sono aperti, quelli che funzionano sono al collasso; mancano medici e infermieri (uccisi, rapiti o fuggiti); mancano farmaci essenziali a cominciare dagli anestetici; per arrivare in un ospedale “funzionante” devi a volte fare ore di auto (con un ferito che perde sangue ed è sdraiato sul pianale di un pick up che sobbalza su strade piene di crateri di esplosioni); le terapie intensive quasi sempre non esistono perchè non ci sono mai state o perchè sono troppo complesse e costose da tenere aperte in tempi in cui manca persino la corrente elettrica.

L’elenco potrebbe continuare ma credo di essere stato abbastanza esemplificativo, non vorrei diventare noioso. Quindi per favore, in questi giorni, non usate a sproposito il termine guerra perchè mancate di rispetto a chi in mezzo ad un conflitto ci sta per davvero; perchè con questo atteggiamento in una guerra durereste 50 secondi; perchè dimostrate di non aver capito davvero nulla di quello che accade oggi sul nostro pianeta (quasi 400 conflitti in corso e per lo più dimenticati), perchè confermate che state usando il vostro tempo “congelato” nella peggior maniera possibile. Magari prendete uno o più libri e cercate di capire davvero cosa sia una guerra.
Dopo averlo fatto vivrete con più dignità la fase che sta attraversando l’Italia e magari troverete la forza per dare una mano ad anziani, disabili, poveri e vittime in genere che soffrivano ieri e soffrono oggi al quadrato.
Buona lettura e buona riflessione.

Se ce l’hanno fatta in Africa


La presidente liberiana Ellen Johnson Sirleaf agli inizi dell’epidemia di Ebola, reagì furiosamente alla previsione del CDC e di altre organizzazioni mediche secondo cui Ebola avrebbe colpito 1.4 milioni di africani.
I mesi successivi dimostreranno che avrebbe avuto ragione lei

Mi autodenuncio in premessa, così se volete saltarla (come le introduzioni dei libri) andate direttamente due capoversi sotto: il mio è un punto di vista di parte. Da anni, per scelta, mi occupo di “crisi dimenticate”, un termine garbato che autocertifica l’incapacità del giornalismo di occuparsi stabilmente di guerre, epidemie, esodi e disastri vari in luoghi più o meno lontani da noi. Un atteggiamento che nasce dalla – quasi sempre boriosa – idea che “tanto alla gente non frega nulla” e finisce quindi col fare in modo che alla gente non freghi nulla, del resto se nessuno tiene per te il bandolo della matassa ti ritrovi a non capirci più nulla in un attimo.

Perchè faccio questa premessa? Perchè in questo post sostengo una mia convinzione sulla quale batto da anni (chi è stato alle presentazioni del mio libro o ad una delle iniziative che tengo in giro per l’Italia potrà confermarlo) ovvero che occuparci delle crisi lontane non è un gesto di buonismo ma dovrebbe essere un atto di sano egoismo. In primo luogo perchè interessarsene significa prepararsi a fronteggiarne gli effetti prima che – in questo mondo globalizzato – arrivino a bussare alla nostra porta (se avessimo imparato la lezione afghana, non ci saremmo imbarcati nel devastante intervento libico; se avessimo aperto gli occhi di fronte al disastro strano non avremmo avuto la crisi dei profughi del 2015). In secondo luogo perchè da quelle crisi si possono imparare tante cose. Per esempio (senza voler scendere in discussioni di merito sulla natura e sul perchè di quelle presenze o fare un paragone), i militari in missione come medici-paramedici delle Ong schierati all’estero diventano di solito un élite dentro le proprie categorie professionali, personale che accumula esperienze altrimenti impossibili in Italia.
Dalle crisi lontane si possono imparare tante cose, basterebbe solo ascoltare ed evitare di liquidare tutto illudendoci che tutto ciò che è lontano non ci riguarda.

L’epidemia di Ebola in Africa occidentale del 2014/15 l’ho seguita sul campo e ho capito cose che probabilmente non avrei colto guardando solo ai resoconti delle agenzie di stampa. Il virus Ebola esiste da tempo immemore: un cacciatore va nella giungla, ammazza una scimmia o pipistrello (è la selvaggina locale, probabilmente si schiferebbe anche lui a pensare che noi mangiamo i passerotti), lo scuoia e si contamina con il sangue. Il cacciatore infetto torna al villaggio e in breve contamina tutti, il virus finisce con lo sterminare tutti salvo i “super-immunizzati” che, per motivi spesso ignoti alla scienza, non vengono contagiati. Quando sono morti tutti, il focolaio si spegne perchè il virus ha tagliato il ramo sul quale sedeva, in pratica non ha più corpi nei quali sopravvivere, prima di ucciderli, per poi trasferirsi in altri esseri umani. L’epidemia è finita.

Nel 2014/2015 in Africa occidentale succede qualcosa di ben diverso rispetto a questo modello tradizionale di epidemia: il virus si diffonde al di là dei villaggi isolati nella giungla, comincia a viaggiare verso le aree metropolitane (che in Africa sono enormi concentrazioni di persone) e attraversa i confini. Come mai? Perchè l’Africa – altra area di cui i media non parlano mai – negli ultimi anni è cambiata. E’ entrata in quella fase che gli studiosi di geografia economica definirebbero “sviluppo arretrato”, un misto di avanzamento dell’economia e di fragilità delle infrastrutture sociali (in primis quelle mediche). L’Africa non ha solo zebre e bracconieri, capanne e deserti. Ha anche compagnie telefoniche, banche, unioni commerciali e doganali, linee aeree anche low coast.
Inoltre la Cina ha investito massicciamente in Africa. Ha costruito porti e strade.
Se gli umani viaggiano più facilmente, il virus fa altrettanto e quindi non resta fermo nel remoto villaggio nella giungla di cui si parlava sopra. Ecco che l’epidemia colpisce diversi Paesi, sostanzialmente i tre principali dell’Africa occidentale: Liberia, Guinea, Sierra Leone. Ma arriva anche in altri luoghi d’Africa, dove – grazie all’allerta intanto scattata – il virus viene subito fermato con quarantene e isolamenti vari. Di scuola il caso della Nigeria, quando all’aeroporto della megalopoli Lagos arriva un infetto, le forze di sicurezza riescono in breve a circoscrivere l’area e a rintracciare i potenziali contaminati, in pratica salvano il Paese da una situazione potenzialmente catastrofica

In Africa occidentale si è dovuto fare i conti con voci e superstizioni (da noi fa figo chiamarle “fake news” ma è la stessa cosa) mescolate con assenza di sistema sanitario (i pochi medici e infermieri del Paese erano stati massacrati dal virus) e con un diffuso analfabetismo (i messaggi più efficaci vennero lanciati non a caso con la radio e la musica). Nonostante ciò si è riusciti a bloccare il contagio con alcuni provvedimenti all’apparenza banali. In pratica vennero bloccati tutti gli spostamenti non solo da e verso l’estero ma anche all’interno del Paese, sono stati poi istituiti posti di blocco con l’obbligo di scendere da auto, moto, bus e lavarsi le mani con la soluzione di ipoclorito di sodio.
Dopo questi provvedimenti il contagio calò drasticamente contribuendo alla fine dell’epidemia.
In Italia, oggi, pur di fronte ad un’epidemia ben diversa e molto meno letale, ci ritroviamo in una condizione simile ma con restrizioni sicuramente più “rilassate”.
Mi viene, provocatoriamente, da dire: se ce l’hanno fatta a rispettare queste norme in Africa occidentale, in aree poverissime e dove domina l’analfabetismo, beh nella nostra benestante Italia dovrebbe essere molto semplice attenersi alle istruzioni e fare i “compiti a casa”.
E allora facciamolo. Ha funzionato contro Ebola in luoghi dove l’acqua corrente si ruba bucando le condotte, funzionerà contro il covid nella civilissima italia, dove abbiamo l’ecommerce, la tv on demand, la spesa a domicilio e la pizza in consegna con la app.

Lettera ai nostri figli

Sono un papà fortunato: ho due figli bellissimi.
Mio figlio ha sette anni: una volta a settimana va a calcio, due a karate.
Mia figlia ha quattro anni: una volta a settimana va a danza, una fa teatro, il sabato in piscina. Agende da manager – vero – ma si divertono tanto.
Grazie alla mamma (che è americana), parlano due lingue e guardano i cartoni in entrambi gli idiomi (il dialetto salernitano lo stanno imparando come terza opzione).
Assieme alla lettura (almeno per il più grande, la piccola ci prova ma a volte impugna i libri sotto sopra), la televisione è l’unica cosa che l’epidemia non ha cambiato nelle loro vite.
Ho provato a crescere i miei figli “esponendoli” sempre al nuovo, con cautela ma nella diversità. Ho provato a dare loro coraggio in una società dove i vili sembra vincere sempre. Ho cercato di evitare che incubassero le paure e le ansie dei genitori, che guardassero alle novità di ogni giorno come ad un’occasione. Sono bimbi che non hanno paura facilmente nemmeno oggi che tutta la loro “routine” è stata cancellata.

I miei figli sono bambini fortunati ma da qualche giorno – all’apparenza – hanno perso tutto: lo scuola bus al mattino non passa più; la passeggiatina fino all’asilo è abolita; niente karate né danza; a pallone possiamo giocare solo in corridoio che “se rompete qualcosa poi fate i conti con me” (le grida della mamma). Andare al parco giochi è roba rischiosa; incontrare gli amici è troppo pericoloso; mettersi le mani (o la matita) in bocca, innesca la detonazione delle grida domestiche con successiva protesta perchè “sempre con noi ce l’avete!” (adolescenza precoce !).
Nello spaesamento della perdita di ogni certezza, i bambini reagiscono illudendosi di essere in una mezza festa: stanno più tempo a casa, guardano più tv, possono alzarsi da tavola più facilmente di quanto facciano dal banco in classe. Ma, in realtà, già si chiedono che cosa stia succedendo e perchè le loro vite sono sottosopra. Due settimane fa – così ebbi già modo di misurare il fallimento dell’informazione italiana – mia figlia dopo un colpo di tosse mi chiese se, secondo me, lei avesse il corona virus. I bambini sanno molte più cose di quelle che vorrebbero farci credere.

Ho sottoposto i miei figli a tanti privazioni per via del mio lavoro e delle assenze che mi impone: quando vede che apro la valigia per riempirla, la piccolina ci si siede dentro come fosse un blocco stradale. Il grandicello mi chiede se io torni a Calais “dove nessuno ha una casa” per aiutarli a costruirsene una. Da quando sono stato in mezzo all’epidemia di Ebola, non smette di chiedermi perchè in Africa ci siano tante malattie. Dell’Afghanistan vuole sempre sapere perchè ci sia la guerra e soprattuto chi l’abbia cominciata. Quando mi vede con l’elmetto e il giubbotto anti-proiettile non si riesce a spiegarsi perchè io non abbia un fucile d’assalto al collo o una spada laser. Per fortuna, ho una brava moglie e una grande mamma che prova a spiegare loro che papà non c’è perchè è fuori a lavorare.
Sarà meno “romantico” del lavoro di un inviato, ma scommetto sia lo stesso per i papà metalmeccanici pendolari di Melfi o per quelli che attraversano l’Italia sui Flix Bus inseguendo una cattedra di “ruolo”.

Stasera ci siamo parlati, io e i miei figli. Sono convinto che ai bambini si possa raccontare tutto purché si usi un linguaggio gentile e si evitino le bugie. Ho chiesto loro se fossero tristi per tutto quello che stava accadendo. Abbiamo chiacchierato un po’ sin quando non gli ho detto: “Sapete questa per voi è una gran fortuna”…”Fortuna?” mi hanno guardato esterrefatti. “Si – ho detto io – perchè adesso potete finalmente capire quanto cavolo siete fortunati e quante cose straordinarie avete ogni giorno. Ce le avete tanto facilmente che vi sembrano normali, poi arriva un virus e tutto scompare!”.
Mi hanno guardati tra il perplesso e l’illuminato. Abbiamo cominciato a parlare di quei bambini che nel resto del mondo hanno una casa, dei giocattoli, buone cose da mangiare, dei parenti che li amano. Insomma che sono come loro ma che all’improvviso sono costretti a rintanarsi tra le mura domestiche o a scappare lontano perchè cominciano a cadere bombe dal cielo o le zolle di terra bagnata, lungo la strada, nascondono IED appena interrate. Perché lo scuola bus sul quale viaggiava il cuginetto è stato colpito da un missile, nonostante fosse carico di bimbi e di zaini azzurri dell’Unicef. Perchè di notte, qualcuno è entrato in casa e ha ammanettato con le fascette di plastica mamma e papà per estorcergli confessioni su cose di cui non sanno nulla. Perchè i “cattivi” sono arrivati e hanno bruciato il villaggio, stuprato le donne e sparato in testa agli adulti, lasciando i bambini in fuga nella giungla con i vecchi, deboli e inoffensivi, senza cibo, senza una rotta, sotto una pioggia torrenziale. Perchè tutto quello che facevano prima come andare a scuola, andare a prendere un gelato, andare al parco gioco è diventato all’improvviso impossibile tanto da metterne a rischio la vita.

Alla fine della chiacchierata, ho fatto vedere ai miei figli una foto: un mio selfie, in mezzo ai bambini del campo di Moria, Lesbos, un inferno da far rimpiangere la Siria e l’Afghanistan se solo ci fosse rimasto – in quei luoghi -qualcosa da rimpiangere.
Mi hanno chiesto la storia di quei bambini, in una foto che sembrava alla fine, null’altro che normale visto che mostrava solo volti sorridenti. Poi ho aperto altre foto e ho fatto vedere loro cosa ci fosse intorno a quello scatto: le baracche, il fango, i rifiuti e tutto il resto. La soluzione potrebbe essere – mi ha detto mio figlio – nascondersi tutti in un pacco di Amazon per fuggire. E a proposito di fuggire abbiamo anche parlato della storia di quel ragazzino nascostosi in Africa nel carrello di un aereo e precipitato in Europa o dei ragazzi che ho visto a Patrasso infilarsi sotto ai camion per arrivare in Italia.
Mia figlia ci sta ancora pensando ma credo che domani o dopo mi fulminerà con qualche riflessione da saggia vecchina di quattro anni.

Ecco: io credo che le crisi siano sempre fonti d’opportunità, che nelle avversità riusciamo a fare e a vedere cose che normalmente ci sembrano impossibili o invisibili. Spero che i miei, i nostri, figli abbiano capito come basti una “creatura” piccolissima – tanto da sfuggire all’occhio umano – per cambiare d’improvviso, nel giro di poche settimane, e radicalmente le nostre vite. Spero che abbiamo capito che tutto quello che possediamo non è scontato ma qualcosa per cui essere grati. Spero che smettano di lamentarsi per il superfluo. Spero che possano meglio capire le ragioni e i drammi degli altri, vicini o lontani che siano.

Evento Rimandato

Nel rispetto delle norme e del buon senso, l’evento dell’11/3 a Roma è rimandato.

Il locale già da diversi giorni e non solo per l’evento (ma con gli ulteriori aggiustamenti del caso per la proiezione) aveva modificato il numero di posti per rispettare le prescritte distanze di sicurezza,

Voglio ringraziare tutte le persone che si erano prenotate esaurendo i posti disponibili (ma anche quelle in lista d’attesa).
L’appuntamento è solo rimandato, speriamo (in primis per lo stato di salute del Paese) a presto!
Grazie anche a “Magazzino Scipioni” per aver aperto le porte ad un’iniziativa culturale, non del settore enogastronomico 🙂